quaranta #9febbraio

 

Quando lasci fare all’acqua calda e alla pelle, i segreti salgono in bolle verso il soffitto e scoppiano e scoppiando ridono e ridendo tornano al suolo e lì si perdono. Non svaniscono, si perdono e come chi si perde perché pensava ad altro poi ritrovano i calzini e la maglia di lana e soffiano nel vetro e tornano bolle. Fino a che risalgono, riguadagnano il soffitto. E sono ancora i segreti di sempre, nonostante la memoria della caduta.

Un giorno come un altro, di quaranta ore invece che ventiquattro, che un paio ne sono valse due e due o tre anche qualcosa di più. Capita a tutti, almeno una volta, di non sentire il tempo o di accorgersene poi e di avere la netta sensazione che sia stato contato male, che non possono essere solo le sei, quasi le sei di una sera che era già lì da un pezzo, almeno a lasciar dire alle scapole.

Amo come esca come attesa come mani. Amo, voce del verbo essersi, dentro e fuori e intorno; voce del verbo raccogliere, attendere, tirare il filo e cederlo un po’, non perdere la forza e farlo con grazia, la grazia acerba dei frutti maturi.

Ridi, che quando ridi ti ride anche la schiena e diventi musica, una musica calda, leggera. Ridi, che quando ridi ipnotizzi la malasorte e tocca credere ai miracoli, per forza di cose.

Accidenti a te, freddo che freddi le dita dei piedi e arrivi fino al naso e ti prendi le nocche e le unghie e le ciglia. Accidenti a te, che mi costringi a spogliarmi mentre mi copro e mi arrotolo e l’anima è nuda mentre balbetta la sua voglia di mare.

Non deve essere facile nascere principesse, crescere principesse, credersi principesse e poi scoprire, di botto, che anche a ostinarsi principesse la vita aveva una voglia assurda, incontenibile, di metterti addosso i tuoi quattro stracci e lasciarti lì da sola, principessa un bel niente come il resto del mondo che guardavi dal tuo lassù.

Tutto il mio folle amore.

Appendo chiacchiere a un filo di lino e le lascio dondolare come un lampadario di chicchi, di pietre. Le appendo e resto a guardarle e alcune sono prismi e sperperano luce in lame, schegge di senso, di non-senso, fini a se stesse e votate al silenzio che le seguirà. Appendo a un filo qualche minuto di pelle, come fosse ossigeno e serve, ai polmoni serve eccome.

Giorno quaranta – anno dispari duemilaquindici – nove febbraio

40 km - le luci della centrale elettrica

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