cinquantuno #20febbraio

 

Ci sono i giorni della memoria e c’è la memoria nei giorni.

Ci sono gli anniversari. Ce li segniamo, facciamo i conti alla rovescia, apriamo gli occhi quel mattino lì ed abbiamo la sensazione che ci sia qualcosa di diverso, come un’aria un poco più densa o refrattaria alla normalità, come i colori un poco più marcati o soffici o spolverati. Ci sono i giorni della memoria, dedicati a un evento passato perché ritorni a farci bene o male che sia, purché ritorni, purché non venga dimenticato, purché resti traccia, orma, impronta, fatto, gesto, pedina. Non dimenticare è quello che ci possiamo permettere per fermare un poco la vita, rallentarla un attimo, impararla, volerle bene anche nelle sue distrazioni, nelle sue ostinazioni, nel suo atavico a prescindere da noi.
Ci sono i giorni della memoria felice e tante volte ce ne dimentichiamo. Alcuni li ricordano per due e non ne sentono il peso. Altri non li ricordano nemmeno per se stessi e poi se ne scusano.
Ci sono i giorni della memoria storica e occorrono perché credo serva dare una scrollatina agli animi visto come questo presente tende a intorpidirli.
Ci sono i giorni commerciali della memoria, quelli in cui ricordarsi di amare, di avere la mamma o il papà o il nonno o il gatto pare essere un dovere merceologico anziché un privilegio (io poi adoro approfittare anche di questi,  poiché un’occasione per un pensiero di tenerezza è pur sempre un’occasione, a prescindere da dove arriva).
Ci sono i giorni della memoria del dolore, quelli dei lutti, i giorni in cui tempo fa perdemmo qualcuno o qualcosa, e da quel giorno il mondo se ne fotte quanto prima eppure tu non sei più quello di prima. Sono giorni che non somigliano a nessun’altro, se dovessimo metterci a descriverli per come li sente la nostra pancia. Sono ore e ore di quell’espressione lì o di quell’odore lì che ti colgono all’improvviso e potresti giurare che, a girarti, alle tue spalle troveresti proprio lui o lei o loro con in mano una tazza di caffè da dividere con te. Sono interi quarti d’ora di ricordi scritti a mano, di getto, in bella calligrafia, la bella, triste, ingombrante geografia della mancanza. Sono minuti e minuti di malinconia assurda, vitale, che respira come respira la vita, quando fa freddo e sui vetri resta l’alone del suo stare lì al caldo a guardare il mondo che fuori ghiaccia. Attimi straordinari di domande senza alcuna risposta o con tutte le risposte possibili, srotolate una dopo l’altra dalla voglia di capire, di sapere, di tornare da dove siamo venuti, a dare le carezze che ci siamo tenuti nelle mani, a dare i baci che non abbiamo saputo sciupare di saliva, a dare via tutto quel sentire che non siamo stati capaci di consumare, che abbiamo lasciato nei cantucci del cuore ad aspettare un poi che ora è solo la favola dei se.
Poi passano. Gli anniversari passano e fino a che non sarà di nuovo il loro turno di fotografie e ricami emotivi, la vita sembrerà non avere imparato nulla tanto quanto prima. Invece no. La vita impara tutto se non ci distraiamo. E non distrarsi significa semplicemente (semplicemente un corno) sentirla nelle rughe, tutte, quell’anima lì che una volta all’anno ti bussa ovunque come non avesse avuto, allora, nessuna voglia di andarsene via. Non distrarsi significa consumarlo, l’amore, imparare a consumarlo di baci dati e parole dette e fotografie scattate, portandosele in tasca ogni benedetto giorno tutte le cartoline di gesti che chi amiamo ci spedisce ogni mattina quando si lava la faccia, si gira e ci cerca, cerca proprio noi, fosse anche con un ghigno di dissenso o una parola trattenuta. Non distrarsi significa non sprecare niente, nemmeno il dolore, trovare le teche giuste in cui custodirlo, occhi che non lo denudino, mani che non lo soffochino, gole che non abbiano l’impudenza di ingoiarselo in un solo boccone per poi sputarlo via. Non distrarsi significa tenere la memoria nei giorni, tenere a memoria i giorni: il buono e il cattivo tempo, le aridità e i calori, le noncuranze, gli errori e le mistificazioni, le distrazioni e le attenzioni, i sapori, gli insegnamenti. E cosa ci ha insegnato chi non aveva voglia di andarsene? Che è qui e adesso che si scrivono le cartoline e che sono quelle cartoline lì che fanno la storia e che senza storia, senza cicatrici, senza respiro, c’è ben poco da poter fare o rifare. Se la memoria resta chiacchiere, nel bene e nel male, è solo l’ennesima occasione sprecata. E quelle anime lì, quelle che portiamo nelle rughe, potendo ci prenderebbero a calci nel culo ogni volta che sprechiamo anche solo un secondo di fiato, potrei giurarci.

Ci sono i giorni della memoria e c’è la memoria nei giorni. E c’è tanto di quel silenzio, a stare bene a sentire, un silenzio assordante.

 

 

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