G. #quarantatré #12febbraio2019


Ciao G. .
Oggi ti pensavo. 
Così, senza un motivo preciso o forse perché sono giorni che ti riguardano. 
Pensavo che ti ho conosciuto al contrario. La prima volta che ti ho visto non c'eri più e, dicono, somigliavi così poco all'uomo che sei stato. Ho voluto salutarti perché chi ti voleva bene era entrato nella mia vita rendendola una specie di novità e in quel momento stava alla mia vita come la primavera sta alle rinascite. Nemmeno sapevo quanto e come mi sarei trovata legata alla tua storia. Ci si innamora come per errore e non è una cosa brutta da dire. Capita. Ci si sceglie dopo, dopo essersi innamorati, quando si comincia ad intuire che le cose non sono più nel posto in cui stavano e forse per rimetterle in ordine è proprio di quel paio di mani che hai bisogno: non un paio qualsiasi, ma quelle lì _ piccole, forti, con un pollice diverso dall'altro; ferme, dolcissime e che se mancano ti cade il cuore dal petto.
Caro G., ti imparo dai racconti delle tue nipoti, dagli occhi che si inumidiscono di tua moglie, quegli occhi che ti rimpiangono ogni minuto, ogni giorno, come se sopravviverti fosse il peggior affronto che si potesse fare al tempo. Ti imparo dai segni sulla fronte di tuo figlio, come si piega quando stringe lo sguardo e magari poi ride e sembra De Niro e lui gli somiglia perché gli somigliavi anche tu. Ti imparo da quei thermos di tea che portavi, il lunedì, quando faceva buio: silenziosi, esatti, puntuali, come le cose che servono davvero _ silenziose esatte puntuali. Ti imparo da tua figlia, da quel dirti "Ti voglio bene papà" che è come se lo scrivesse sui sassi ogni volta, a fare del passato un geroglifico, la certezza che ferma l'andare delle cose dove diavolo pare a loro. Ti imparo dai racconti, ogni volta uno nuovo, certi regali, qualche vacanza, il mare; il pianoforte, un mixer, le macchine fotografiche, il lavoro _ il duro lavoro che spezza le reni e lascia poco spazio alle manfrine e rende asciutti, reali, leali, senza fronzoli, padri restii ai baci, ma che le loro ossa sono le tue. Quei regali fatti senza girarci tanto attorno, perché le parole servono a poco, contano i fatti. Quelle fissazioni che uno al momento ci piange, non le capisce, ti detesta: poi ci ripensi e ti viene una gran malinconia, perché magari erano dolori, ma si chiamavano cure, le cure come le sapevi tu. Ti imparo dai buchi in cui inciampa chi ti ha voluto bene, che le cose restano, le cose dicono di chi non c'è più, ma sono gli occhi che fanno la differenza: uno sguardo, così come deve essere _ magari a ferire, spesso a curare, delle volte a emarginare o rimarginare, ma certi occhi scavano buche e quando quegli occhi non guardano più in quelle buche ci caschi dentro e le caviglie fanno male _ e fa male il cuore, la schiena, fanno male persino i ricordi, che vorresti rimetterli a posto, ma loro stanno dove stanno e sei sempre te dalla parte sbagliata dell'uscio.
Caro G., mi sarebbe piaciuto starti simpatica, indovinare il gioco delle poche parole giuste e degli sguardi, quelli complici e quelli di furia; prendere un caffè insieme (a casa, che al bar non ne vale la pena), scoprire dal disegno delle tue spalle la geografia della schiena dell'uomo che amo. Mi sarebbe piaciuto portarti un regalo, cercare per giorni qualcosa apposta per te, per dirti grazie, grazie G., che senza di te non ci sarebbe lui e se non ci fosse lui tutto sarebbe meno, davvero molto meno.Ciao G., oggi il tea lo faccio io e vengo a portartelo lì dove ti nascondi. Poi mi dirai che biscotti preferivi. C'è tempo. C'è sempre tanto, troppo (poco) tempo.


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