sessantotto #8marzo2016
Stamattina mio padre mi ha fatto gli auguri. Era triste poiché è
oramai qualche anno che non gli riesce di decorarci la vita con i doni delle
occasioni: la rosa a San Valentino, la mimosa alla festa della donna,
piccolissime cose che il tempo tende a svuotare di senso, ma che lui ha sempre
saputo rendere eccellenti modi di esserci. ‘Ché i suoi hanno sempre voluto
essere dei grazie detti in quel modo lì, colorato e profumato, che a dire grazie
con la bocca non gli riesce bene. Però è grato. È un uomo grato alle sue donne,
lo è da sempre. Grato di quella gratitudine sana e anche un filino paracula che
rende bello sapersi diversi, vivi, complementari, necessari l’uno alle altre.
Grato di quella gratitudine che ti permette di perderti su fiumi di rabbia
quando la vita naufraga e non ti caga di pezza, piuttosto ti travolge, delle
volte ti schiaccia, spesso ti lascia in mutande a guardare calare la notte delle
occasioni perdute, poi però ti scappa un sorriso e accorrono gli occhi a spalare
via il letame e a far sbocciare su quello che resta un fiore nuovo, nuovo ogni
volta. Siamo in tre, qui, un uomo e due donne, ma non si è mai sentito solo, mio
padre, nel suo essere l’unica baracca di testosterone in famiglia. Io non lo so
da dove mi sono venuti i modi da portuale, la prepotenza dei bicipiti , quel
prendere le cose di ghigna come in mano avessi sempre chiodi e martello, come se
la guerra bastasse il coraggio per vincerla. Forse da lui, dal dovergli
resistere accanto, dal bisogno di parlare una lingua che fosse nostra e non solo
mia, dalla paura di non essere abbastanza nemmeno a furia di fare e fare e fare,
dall’urgenza di lasciarle seguire ad altre le strade che la mia pancia voleva
fatte anche per me. Forse da un ingenuo bisogno di affrancarmi da quell’essere
moglie e madre senza via di scampo, dal doverlo essere, a prescindere. Forse per
essermi fratello in tutto il tempo speso a fare altro. Forse per salvarmi. Ma
che ne so. Quello che so è che gli uomini mi piacciono, con tutte le incoerenze
che si portano addosso, con le loro debolezze, con quel modo nostrano di
difendersi, di alleggerire le cose, di complicarle per poi dimenticarle. Mi
piace somigliare un po’ a qualcosa che mi piace. Mi piace covare dentro le due
facce della medaglia, proprio come ha sempre fatto mio padre. Poi delle volte
mi fanno paura, ma questa è un’altra storia. È la storia di uomini che
confondono l’essere maschio con l’essere bestia e vorrei solo che quegli artigli
la smettessero di strangolare le carni e le vite di troppe donne, mogli figlie
madri meno fortunate di me. I miei uomini invece io un pochino li ho emulati e
se quello che di mio somiglia a loro in certi occasioni fa sorridere, meglio
così. Del nonno per esempio salvo ogni giorno la leggerezza, il rispetto e il
barlume con cui sorrideva alle signore, con cui sapeva vivere nel mondo senza
troppa paura, bello come un Dio e ferocemente alla mano. Io quella bellezza lì
non ce l’ho, ma quella calviniana leggerezza l’ho rubata dai sui muri e appesa
ai miei e cerco di salvarla quasi con ostinazione dagli sguardi che non la
possono, non la vogliono comprendere. Insomma, se mi piace la donna che sono è
anche perché c’è tanto maschile in me. Accanto alla resistenza e alla grazia
(sì, si chiama così, c’è poco da ridere) che mia madre mi ha innestato fra le
costole, respira colei che da ragazzo remava sul fiume come non ci fosse un
domani, che da uomo ci ha messo mesi, spesso, per piangere via il dolore ‘ché
non si poteva, non c’era tempo, cosa vuoi che cambi. E mi piace la donna che
sono. E mi piace esserlo così, che delle volte sembro mio fratello, solo delle
volte, e così sia, che mio fratello, a dirla tutta, è una gran
donna.
P.S. grazie Valentina.
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